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  • Marketing e interazioni tra persone e aziende, dal 2004

Purché se ne parli

Il modo di dire «Nel bene o nel male, purché se ne parli» con varianti diverse arriva dal Ritratto di Dorian Grey di Oscar Wilde. «There is only one thing in the world worse than being talked about, and that is not being talked about». Mi ricordo che fu citato spesso anche da Andreotti, tanto che molti pensano sia sua. È stato adottato da tanti pubblicitari, spesso per giustificare le peggiori malefatte o flop o fail clamorosi. La gente stessa mi chiede a volte se per caso penso che una certa pubblicità sia così becera o doppiosensista da essere fatta apposta: purché se ne parli. Mi è capitato con lo screenshot della mano nella «farina» di Esselunga (in cui beninteso non penso sia doppiosenso voluto, ma pare sicuramente percepito).

A un certo punto della storia, noi marketer alternativi digitali ci siamo ribellati: «non è più così! La reputazione è tutto! Gli epic fail fanno danni diretti e permanenti!». E giù con le famose «crisi da social media» che in realtà quasi sempre sono crisi «fuori dai social media» che vengono ovviamente amplificate dai social, oppure NON sono vere crisi, ma semplici raffreddori di stagione, che poi passano da soli.

«Purché se ne parli» è traducibile con awareness, in linguaggio markettese. So che esisti. Non ho una particolare buona opinione, e nemmeno una particolare cattiva opinione. O almeno non me la ricordo più. Sì, perché la mente umana dimentica molto facilmente o comunque non associa il ricordo al momento dell’acquisto. O almeno, non sempre. C’è una regola mai smentita per cui più alta è l’esposizione mediatica, più apprezzato è un brand. È un meccanismo inconscio: ciò che è molto conosciuto non può essere così male. Almeno non così male da non essere comprato, in mancanza di altre informazioni – o di vogliasbattinecessità di avere altre informazioni. E – inoltre – ciò che non si conosce per definizione è raro che sia comprato, o almeno è meno probabile, statisticamente.

Ricordo in prima persona qualche anno fa un tentativo, per un prodotto mass market, di bypassare la fase di awareness, ovviamente in senso lato: cercare direttamente solo gli interessati, in modo chirurgico. Non funzionò: l’awareness collettiva, indipendente dalla reputazione, è di per sé un indicatore, un fattore di scelta. Se gli altri non la conoscono, c’è qualcosa che non va, pensa la maggioranza delle persone, early adopter esclusi.

 

Questo ragionamento mi è scaturito dalla lettura di un episodio di crisi aziendale.

 

«Unilever nel Regno Unito voleva compensare l’aumento dei costi causato da una sterlina più debole. Quindi hanno aumentato il prezzo di Marmite del 10%. Ciò ha portato a una discussione molto pubblica con Tesco. La lotta fu breve. Ma a causa della natura iconica di entrambi i marchi, anche di alto profilo. Ha fatto notizia in tutti i principali canali di notizie.

Il monitoraggio della salute del marchio ha dimostrato che i consumatori consideravano Marmite i cattivi. Il «Buzz”, il numero di persone che avevano sentito qualcosa di positivo o negativo sul marchio, è sceso drasticamente da +8,7 a -23,7. In una classifica per “reputazione del marchio”, Marmite ha perso 16 posizioni. Anche la percezione del valore è crollata. E probabilmente la cosa più preoccupante di tutte, l’intenzione di acquisto è scesa di 3,9 punti. Marketing Week ha dichiarato che “Marmite è senza dubbio il più grande perdente dopo la scorsa settimana”.

 

Chiaramente la salute del marchio è importante. Ma quanto ha influito gravemente questa negatività su larga scala sulle vendite? La risposta è «molto rapidamente e in modo drammatico». Le vendite di Marmite sono immediatamente aumentate del 61%. Un aumento delle vendite di £ 335.000 in una settimana».

 

Non solo la awareness funziona in invarianza di reputazione, ma anche in caso di diminuzione di reputazione, purché non si tratti di condizione assolutamente bloccante dell’acquisto. Perché? Perché siamo portati – marketer – a sopravvalutare quanto le persone ci scelgano ponderatamente, razionalmente, e sottovalutare quanto ci acquistino con il pilota automatico o tramite associazioni epidermiche (influencer = buono), tramite una valutazione inconscia o semplicemente una NON valutazione, che porta di nuovo all’equazione conosciuto uguale affidabile, o meglio, passabile e alla relazione statistica «più conosciuto più probabile l’acquisto».

Ho immaginato lo stesso ragionamento su Barilla, e lo sfortunato caso dell’intervista a Radio 24. In Italia, in cui il brand è «normale amministrazione di acquisto”, il picco di menzioni non ha danneggiato il brand (non ho dati ma la sensazione è che sia così). Mentre negli USA, in cui l’acquisto di una pasta italiana considerata premium comporta una più accurata valutazione di brand, reputazione, un’attivazione del cervello reale, i danni dal recupero mentale dell’episodio sono stati probabilmente maggiori e più lungo il tempo di recupero.

 

Purché se ne parli non è sempre vero, ma soprattutto non è sempre sbagliato.

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